C-Cinque + 1 – Improbabili – Nella corrente

CCinque + 1 le cinque domande +1 di Salvatore Stefanelli

Cinque domande + una al proprio creatore

(Nella corrente – di Alain Voudì)

La Habana Vieja, novembre 1959

Quando il vecchio appare sulla soglia della Bodeguita, scalzo e avvolto nei suoi poveri stracci da pescatore, sono poche le teste che si soffermano a guardarlo per più di un istante. Con la coda dell’occhio vedo Angelo, dietro al banco, stringere le labbra in una smorfia seccata e prendere fiato per scacciare l’intruso, ma prima che possa parlare gli tocco l’avambraccio e lo fermo. Preso in contropiede, il barista si volta verso di me e mi scruta con aria interrogativa.

«È qui per me» gli spiego sottovoce.

Angelo solleva gli occhi al soffitto e sbuffa col naso, ma non commenta e torna a lavare bicchieri. Fa lo schizzinoso, ma sa bene da che parte gli arriva una bella fetta degli incassi della sua bodega. A beneficio dei turisti, ha perfino dipinto su una parete una mia citazione: “My mojito in La Bodeguita, My daiquiri in El Floridita.”.

In verità non ricordo di aver mai detto niente del genere, almeno da sobrio, ma l’ho lasciato fare in cambio della promessa di una non meglio definita fornitura di rum, che lui sembra aver dimenticato all’istante.

Ignaro del mio salvataggio, il vecchio è ancora fermo sulla soglia. Si sta guardando attorno con aria sperduta, come alla ricerca di qualcuno. Con un sospiro rassegnato, allungo il braccio verso di lui e gli faccio un cenno con la mano.

«Santiago!» lo chiamo. Si volta verso di me e il suo sguardo si illumina.

«Mister Hemingway» mormora dopo avermi raggiunto al banco. Tiene gli occhi bassi e stringe tra le dita i resti di quello che una volta forse era stato un cappello.

Schiocco la lingua e scuoto la testa.

«Il mister lascialo ai gringos dall’altra parte dello Stretto» lo ammonisco. «Qui mi chiamano tutti papa, e l’unico che avrebbe davvero il diritto di chiamarmi così sei tu: quindi chiamami papa e andremo d’accordo.»

«Sì, papa

L’appunto sembra avergli fatto scordare la ragione della sua presenza alla Bodeguita, perché si ammutolisce e resta immobile a dondolarsi sui piedi, come in attesa del permesso a parlare.

Schiocco di nuovo la lingua e sollevo la coppa vuota verso Angelo.

«Fanne altri due» gli ordino.

Solo in quel momento il vecchio si riscuote.

«No, per me una birra» interviene in fretta, rivolto al barista.

«Sciocchezze: dobbiamo festeggiare l’incontro» insisto. Poi accenno con la testa ad Angelo, che si era fermato in attesa di conferma. «Fanne uno anche per il mio amico Santiago, ti dico, ché capisca cosa significa “bere” per i gringos

Il vecchio abbassa le spalle e annuisce rassegnato. Soddisfatto, il barista preleva due coppette dal secchiello del ghiaccio dove le tiene e inizia a preparare i Martini, fatti come piacciono a me.

Restiamo in silenzio a guardarlo mentre versa una lacrima di vermut in ciascuna delle coppe e le fa ruotare lentamente per bagnarne le pareti, poi getta via il liquore e le riempie di gin liscio. Infine deposita una scorzetta di limone sul bordo di ciascuna e ce le porge. Annuisco beato: felicità è avere un barista che conosce bene i tuoi gusti.

Santiago resta immobile a fissare il proprio Martini (versione Hemingway) con aria esitante. Immagino si aspettasse un drink più adatto a quest’ora del mattino; ma hai una via sola, e se rinunci a fare qualcosa in attesa dell’ora giusta per farla, allora non ti meriti nemmeno quella.

«Non ti ispira?» lo stuzzico divertito.

Solleva la testa e mi fissa con un sorriso incerto.

«Credevo preferissi il mojito, papa» obietta, e indica la scritta sul muro alle mie spalle.

È incredibile pensare a quante balle si beve la gente.

D’altro canto è meglio così: se non lo facesse io resterei senza lavoro, e i soldi del Nobel me li sono già bevuti quasi per intero. Il giorno che mi chiedono di pagarci sopra le tasse sono rovinato.

«Quella?» sbuffo. «Se l’è inventata Angelo per vendere più rum: gli costa meno del gin, e può allungarlo quanto vuole. Ti sembro uno che si riduce a bere acqua e zucchero?»

Il vecchio annuisce e finalmente si decide a portare la coppa alle labbra. Il primo sorso, per quanto cauto, gli strappa un colpo di tosse; e al secondo ci rinuncia. Indica un tavolino libero alle mie spalle e mi invita a sedere.

«Sono troppo vecchio per stare a lungo in piedi» si scusa.

Mi lascio cadere sulla sedia dal mio lato e sbuffo per celare un sospiro di sollievo. La schiena oggi mi tortura, e anche il resto non scherza. I medici dovrebbero essere uccisi da piccoli.

Santiago deposita il proprio Martini sul tavolo e prende fiato.

«Mi hai riconosciuto subito» osserva, accennando alla porta con la testa.

«Ti ho creato io» gli ricordo. «Sei esattamente come ti avevo immaginato, rughe, cicatrici e tutto il resto.»

«E salao» mi rimprovera senza guardarmi.

«E sfortunato, sì» ammetto. «Per qualche ragione, sembra che i lettori preferiscano i personaggi tragici a quelli eroici. Forse temono il confronto, chissà.»

Annuisce di nuovo, con aria pensosa. Tace a lungo, ed è chiaro che ha una domanda importante sulla punta della lingua; ma finché lui tace, io mi guardo bene dal sollecitarlo ancora.

Alla fine, però, si decide: sospira e la spara fuori d’un fiato.

«Perché hai scritto un libro su di me, papa

Sbuffo.

«Non darti tanta importanza, Santiago: in realtà il libro è nato con la storia, non con te. Anzi, all’inizio per te avevo pensato a una storia del tutto diversa; ma poi mi è venuta in mente quella del pesce e tu eri già lì, pronto all’uso.»

Sobbalza.

«Un’altra storia? Quale?»

«Boh, nemmeno la ricordo più. Qualcosa riguardo al rapporto con tua madre: credo avesse qualcosa a che fare col mio amico Gregorio Fuentes, visto che gli somigli come uno sputo. Tutto quello che hai di buono l’ho preso da lui, compresi gli occhi. Però Gregorio non era salao: quella è roba solo tua.»

Accetta l’appuno senza fare una piega. L’ho creato sconfitto, ma non debole: gli basta un istante per ripartire all’attacco.

«Come ti è venuta in mente la storia del pesce, allora?» insiste. «È vero quello che scrivono i critici? Che il mare simboleggia…»

Alzo la mano e lo fermo subito.

«Lascia perdere i critici» sbotto. «Il mare simboleggia il mare, il marlin simboleggia un marlin e tu simboleggi soltanto te stesso: il resto sono masturbazioni mentali. Credici o no, quella del pesce è una storia vera.»

Questo lo sorprende.

«Davvero?» domanda con aria stupita.

«Certo che lo è: è successa a me e al mio amico Mike Strater, sulla Pilar, al largo di Bimini, nel ’35. Avevamo preso un marlin da mille libbre, e gli squali ce ne hanno mangiato metà prima che riuscissimo a portarlo a bordo, proprio come è successo a te.»

«A me l’hanno mangiato tutto» borbotta. «E comunque non ti ci guadagnavi da vivere, e non eri all’ottantacinquesimo giorno senza un pesce.»

Mi stringo nelle spalle.

«Si sa che i pescatori esagerano» minimizzo.

Mi fissa serio, ma alla fine i suoi occhi lampeggiano divertiti.

«Quindi anche le tue storie di pesca sono esagerate?» mi sfida. «I sette marlin catturati in un giorno solo? Il torneo che hai vinto per tre anni di fila?»

«No, quelle sono vere» scatto, offeso. «Tutte e due: i sette marlin sono del ’38 e il torneo che porta il mio nome l’ho vinto nel ’50, ’51 e ’52. E ce ne sarebbero ancora, come quella dell’anno in cui ho vinto tutti i tornei di pesca dello Stretto battendo anche gente come Kip Farrington. Sono un giornalista, Santiago: scrivo solo di ciò che conosco di prima mano. Guerra, caccia o pesca che sia.»

Ammutolisce, colpito dai miei talenti. O forse dal mio tono.

Quando riprende a parlare, abbassa la voce.

«Quindi scriverai ancora di me, papa

Esito.

«Di te, non so» confesso. «Non credo. Scriverò ancora di mare, penso. Anzi, l’ho già fatto, otto o dieci anni fa: mentre scrivevo la tua storia ne ho scritta anche un’altra, un’intera trilogia sul mare, ambientata qui nello Stretto, tra Havana, Bimini e le Bahamas.»

Scuote la testa.

«Scusa, non l’ho letta.»

«Nessuno l’ha letta: non l’ho mai pubblicata.»

«No? Perché?»

Sospiro a fondo: in effetti non lo so nemmeno io. È un po’ grezza, è vero, ma niente che Hotchner non potrebbe sistemare. Sono sicuro che se glielo chiedessi ne tirerebbe fuori un buon lavoro: è il miglior editor con cui abbia mai lavorato, forse anche migliore del povero Perkins, che il Diavolo ne abbia cura.

«Troppo personale, credo» borbotto alla fine, poco convinto. «Troppi amici che si offenderebbero perché ce li ho messi, o magari perché non ce li ho messi. Non credo che la pubblicherò mai.»

«Peccato, però. Tutto quel lavoro sprecato.»

Mi stringo nelle spalle.

«Di storie scritte e mai pubblicate ne ho un’intera cassaforte piena. Col senno di poi, molte non meritavano neppure il tempo che ho perso a scriverle.»

«E quelle pubblicate, invece? Quelle lo meritavano? Oppure ripensandoci vorresti ritirarle, o magari cambiarle? La mia?»

L’ultima postilla mi strappa un sorriso. Non è difficile immaginare cosa vorrebbe che io cambiassi nella sua storia.

«La tua è perfetta così com’è» lo smonto. «È la cosa migliore che io abbia mai scritto e non ne cambierei una sola virgola, nemmeno le tante che mi hanno aggiunto in bozze.»

Abbassa le spalle.

«Perché è una storia vera» sottolinea con aria scettica.

«Esatto: perché è una storia vera. Senza bisogno di simboli.»

«Nessun significato nascosto.»

Il suo tono mi fa stringere le palpebre.

«Nessun significato universale» insisto. «Fatti, solo fatti.»

«Il mare è il mare, il pesce è un pesce, e io sono io.»

«È quello che ho detto» confermo cauto.

Ma Santiago scuote la testa.

«Lo siento, papa, ma non ti credo.»

Lo fisso sbalordito. «Come, scusa?»

«Non ti credo» ripete tranquillo. «Questo puoi raccontarlo ai tuoi lettori, non a me.»

«Mi stai accusando di mentire? Sappi che ho preso a pugni gente molto più grossa di te per molto meno.»

«Lo so» sorride. «Ma questo non cambia i fatti: ciò che vuoi farmi credere non è vero, papa, e credo che anche tu lo sappia.»

Allargo le braccia, spazientito, e alzo la voce.

«Perfetto!» esclamo a beneficio dei presenti. Qualche testa si gira a fissarmi. «Ehi, gente, ascoltatelo! Oggi abbiamo un critico letterario fra noi!»

Per un attimo gli sguardi del pubblico si spostano sul vecchio, solo per poi rimbalzare imbarazzati su di me. Qualcuno tossicchia e torna a ciò che stava facendo. Angelo mi fissa immobile da dietro il banco, con una luce allarmata negli occhi. Come ho detto, mi conosce bene.

Solo Santiago è rimasto impassibile per tutto il tempo.

«Forza, allora!» lo sollecito irritato. «Illuminaci! Cos’è che dovrei sapere, secondo te?»

Il vecchio, tranquillissimo, prende fiato e obbedisce.

«Io ti credo, papa, quando dici di non aver aggiunto alcun simbolo alla mia storia» si corregge. Sto già per rilassarmi, quando ricordo che tutto ciò che precede il “ma” è spazzatura. «Ma credo che tu non li abbia aggiunti solo perché la mia storia ne era già piena prima che tu scegliessi di raccontarla. Anzi, credo che tu abbia scelto di raccontarla soltanto dopo aver riconosciuto il suo valore simbolico.»

Sulle sue labbra cotte dal sale, un’osservazione del genere suona incongrua come la sua presenza alla Bodeguita.

«Cosa vuoi dire?»

«Lo sai bene, papa: voglio dire che la mia storia non è la tua, come vuoi farmi credere: è quella di tutti, invece.»

Questa è ancora più grossa: lo scruto attento, e costringo la bocca a inscenare un sorrisetto sarcastico.

«Si può sapere che cosa stai dicendo?»

«Pensaci» mi invita. «Quando hai detto che ti è successa la cosa del marlin? Nel ’35? E la mia storia l’hai scritta nel ’51: ossia, sedici anni dopo. Se davvero tu ti attenessi ai fatti, da giornalista quale dici di essere, l’avresti scritta appena successa; tu saresti tu, e non io, e la tua barca sarebbe la Pilar, e non il mio semplice gozzo. Ma non hai fatto niente di tutto ciò, vero? Al contrario: hai eliminato dalla tua storia tutti i riferimenti personali e li hai sostituiti con altri del tutto generici: un vecchio e il mare. E come li chiami, questi? Non so te, ma per me sono…»

Sospiro, sconfitto.

«… simboli» ammetto.

Annuisce piano.

«Simboli» conferma. «Non tuoi, non miei, ma di tutti. E in questo modo la tua storia, la mia storia, non è più né mia né tua: diventa di tutti.»

«Universale» concludo sottovoce.

«Universale» conferma. «Con buona pace dei critici letterari.»

Nel silenzio che segue, prendo un lungo respiro.

«Ho creato un pescatore-filosofo.»

«Si sa che i pescatori esagerano» mi canzona con una luce allegra negli occhi.

Lo fisso, incerto tra l’irritato e il divertito, ma alla fine sono le mie gambe a decidere: non reggerei più un’altra scazzottata, nemmeno contro un vecchio. Così gli sorrido.

«Va bene» mi arrendo. «Allora esagera: raccontamela tu una storia da pescatore. Anzi, raccontami una storia esagerata dove sia io il protagonista.»

Santiago sbuffa, poi si apre in un ghigno sdentato.

«La tua storia è già esagerata, papa: non so come potrei esagerarla più di così. Forse per esagerarla dovrei minimizzarla: raccontare di te come di un povero vecchio, stanco, dolorante, paranoico, timoroso di tutto e di tutti, che vive in campagna tiranneggiato dai medici e dalla quarta moglie di dieci anni più giovane. Ti piacerebbe?»

«No, non credo. Meglio un sano colpo di pistola, piuttosto.»

«Appunto: lasciamo stare. Racconta tu, invece, ché è il tuo mestiere: cosa scriveresti se dovessi continuare la mia storia?»

«La tua storia è perfetta così.»

«L’hai già detto. Non lo sai che ripetersi è cosa da vecchi?»

«Ha parlato il ragazzino.»

«Guardati: hai sessant’anni e ne dimostri più di me. Allora?»

Rifletto per un istante, in cerca di un’idea.

«Potrei raccontare del tuo passato» propongo infine. «Se ben ricordo, ho scritto che sei originario delle Canarie e che ne sei partito poco più che ventenne, giusto? Potrei scrivere qualcosa sulla tua vita laggiù e sui motivi che ti hanno indotto a lasciarla, che ne dici? Magari ripenso anche a quella cosa del rapporto con tua madre, tanto che ci sono. Ti piacerebbe?»

Esita, aggrottando la fronte.

«No, non credo» mi scimmiotta. «Ma niente pistola per me.»

«Giusto: sei cattolico. Per te il suicidio è peccato.»

«Dovrebbe esserlo per chiunque.»

«Sciocchezze: toglietemi tutto, ma lasciatemi la dignità di scegliere quando e come uscire di scena. E a questo proposito…» Ignorando le raccomandazioni dei medici, che siano maledetti per l’eternità, sollevo la coppa quasi vuota in direzione di Angelo. «Un altro di questi, ti spiace?» gli domando. Poi mi rivolgo a Santiago, indicando la sua coppa ancora piena. «Tu sei a posto? Lo finisci, quello?»

Come avevo immaginato, il vecchio sospira e scuote la testa.

Sorrido fra me: a Parigi non sarebbe sopravvissuto una notte.

Dedico l’ultimo sorso di Martini alla memoria del povero James Joyce, in qualunque girone sia sprofondato, e gli auguro che anche all’inferno si trovi alcol a volontà; poi, in attesa di raggiungerlo, mi alzo e torno al banco per fare rifornimento.

 

 

cc  CSide Writer – Alain Voudì

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